Arabia Saudita, violenza domestica e sharia: il caso del video del 2016 e le contraddizioni del 2025
🧭 Il video che ha scioccato il mondo
Nel 2016, un video trasmesso dalla televisione nazionale saudita ha suscitato indignazione internazionale. Il protagonista, un terapeuta familiare, spiegava pubblicamente come un marito dovrebbe “disciplinare” la propria moglie in caso di disobbedienza, seguendo una sequenza ispirata a una rigida interpretazione della sharia.
Le tre fasi della “correzione”:
Ammonizione verbale: il marito deve ricordare alla moglie i suoi “doveri religiosi e coniugali”.
Isolamento nel letto: dormire separati, voltandole le spalle o facendola dormire per terra.
Punizione fisica simbolica: colpirla con un oggetto leggero (es. un bastoncino per i denti), “senza lasciare segni”.
Il messaggio implicito era chiaro: la tutela maschile nella sharia viene interpretata come diritto a esercitare controllo fisico e psicologico sulla moglie, in nome della disciplina familiare.
⚖️ Il contesto legale e culturale saudita
In Arabia Saudita, fino a pochi anni fa, le donne non potevano:
viaggiare senza il permesso di un tutore maschio
lavorare o studiare liberamente
accedere a cure mediche senza autorizzazione
Nel 2013 è stata approvata una legge che criminalizza la violenza domestica, ma la sua applicazione è ostacolata da:
la persistenza del sistema di tutela maschile
la difficoltà per le donne di denunciare senza ritorsioni
la cultura patriarcale che considera la disobbedienza femminile un problema “privato”
🟠 Campagne di sensibilizzazione: un segnale ambiguo
Nel 2016, la fondazione reale Alwaleed Philanthropies, in collaborazione con il National Family Safety Program, ha lanciato una campagna contro la violenza domestica. Sono stati attivati numeri di emergenza (come il 1919) e spot televisivi, ma le attiviste saudite denunciano che si tratta più di operazioni d’immagine che di riforme strutturali.
🌍 Il paradosso del 2025: l’Arabia Saudita guida la Commissione ONU per i diritti delle donne
Nel 2025, l’Arabia Saudita è stata nominata presidente della Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne (UNCSW). Una decisione che ha suscitato forti critiche da parte di Amnesty International e Human Rights Watch:
“Un Paese che incarcera le donne per aver difeso i propri diritti non può guidare il principale forum globale sull’uguaglianza di genere.” — Louis Charbonneau, Human Rights Watch
Contraddizioni evidenti:
Il Global Gender Gap Index 2024 posiziona l’Arabia Saudita al 131° posto su 146 Paesi.
La legge sullo “status personale” del 2022 stabilisce che:
la moglie deve “obbedire in modo ragionevole” al marito
il marito può sospendere il sostegno economico se lei rifiuta rapporti o non vive nella casa coniugale
Attiviste come Salma al-Shehab e Manahel al-Otaibi sono state condannate a decenni di carcere per aver pubblicato contenuti a favore dei diritti delle donne
🧠 Il paradosso del relativismo culturale
In Occidente, alcune correnti evitano di criticare queste pratiche per timore di apparire islamofobe. Ma:
Difendere i diritti delle donne non è un attacco all’Islam, ma una denuncia dell’abuso di potere.
Il rispetto per la diversità culturale non può giustificare la violazione dei diritti umani fondamentali.
È necessario sostenere le attiviste musulmane che chiedono una reinterpretazione della sharia compatibile con i diritti umani.
💬 Conclusione: tra repressione e resistenza
Il video saudita del 2016 è solo uno dei tanti segnali di un sistema che normalizza la subordinazione femminile. Nel 2025, nonostante alcune riforme simboliche, la realtà quotidiana delle donne saudite resta segnata da controllo, censura e repressione.
Denunciare questi episodi non è intolleranza: è un dovere etico. Solo attraverso un confronto aperto e il sostegno alle voci interne al mondo islamico sarà possibile promuovere un cambiamento reale.