🎙️ Lena Dunham e il caso Kesha: quando “presunto” diventa rivoltante
Nel 2016, l’attrice e attivista Lena Dunham definì “rivoltante” l’uso del termine presunto stupratore riferito al produttore Dr. Luke, accusato dalla cantante Kesha di violenza sessuale. Le sue parole:
“La parola ‘presunto’ è malata e rivoltante. Il sistema legale americano continua a danneggiare le donne non riuscendo a proteggerle dagli uomini che loro identificano come molestatori.”
Ma il tribunale, dopo aver esaminato le prove, stabilì che non c’erano elementi sufficienti per rescindere il contratto tra Kesha e Sony. Mancavano referti medici, testimoni, e la stessa Kesha aveva negato l’aggressione in una deposizione del 2011.
Nel 2023, dopo dieci anni di battaglie legali, Kesha e Dr. Luke hanno raggiunto un accordo extragiudiziale. Le loro dichiarazioni congiunte:
Kesha: “Solo Dio sa cosa è successo quella notte.”
Dr. Luke: “Non è successo nulla. Non l’ho mai drogata o assalita.”
🧠 Femminismo punitivo: quando il garantismo diventa un nemico
Il concetto di femminismo punitivo è emerso con forza negli ultimi anni. Secondo questa corrente, la giustizia deve credere automaticamente alle donne che denunciano, anche in assenza di prove. La presunzione di innocenza viene vista come un ostacolo alla giustizia di genere.
Nel 2025, la giurista e attivista Valeria Verdolini ha scritto:
“Tra il ‘sorella io ti credo’ e la presunzione di innocenza c’è uno spazio difficile, ma necessario. Il garantismo non è nemico del femminismo.”
Anche Cecilia D’Elia, senatrice e femminista, ha riconosciuto:
“Io sono perché la presunzione d’innocenza sia garantita a tutti.”
🧨 Il caso Grossman: quando il femminismo ignora gli innocenti
Nel 2013, l’avvocato americana Judith Grossman, storica femminista, ha raccontato come suo figlio fu accusato ingiustamente di molestie sessuali in un college. Nessuna prova, nessuna indagine preliminare, nessun avvocato ammesso. Solo l’accusa di una ex fidanzata.
“Ho capito che la sfrenata ortodossia femminista non è più una risposta. Ha trasformato le nostre istituzioni in un groviglio di vipere pieno di ingiustizia.”
📺 Processi mediatici: quando la stampa anticipa la giustizia
Nel panorama giudiziario contemporaneo, il fenomeno del processo mediatico è diventato una realtà pervasiva e spesso distorsiva. Indagati e imputati vengono sottoposti a una sorta di “giudizio parallelo” da parte dell’opinione pubblica, alimentato da talk show, titoli sensazionalistici e ricostruzioni parziali. Con il rischio, e spesso conseguenza tangibile, che la presunzione di innocenza venga annullata prima ancora che il processo abbia inizio.
La Direttiva UE 343/2016, recepita in Italia con il d.lgs. 188/2021, ha cercato di porre un argine a questa deriva, imponendo alle autorità pubbliche di comunicare con prudenza e rispetto per la dignità degli indagati. Ma nella pratica, come dimostrano casi recenti, le conferenze stampa e i comunicati delle procure spesso anticipano giudizi di colpevolezza, trasformando l’informazione in spettacolarizzazione giudiziaria.
Il caso Bossetti, il processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, è emblematico: video dell’arresto, immagini in manette, ricostruzioni investigative trasmesse in prima serata — tutto prima che il dibattimento iniziasse.
Per non parlare della ribalta mediatica sul processo ad Alberto Stasi e Olindo e Rosa, i cui casi sono stati messi in pesantissimo dubbio da indagini indipendenti (e nel caso di Stasi da indagini ufficiali).
Il problema principale è che quando "sbattono il mostro in prima pagina" l'opinione pubblica poi fatica molto a cambiare idea in un secondo momento, ponendo in dubbio eventuali sentenze di assoluzione.
E ancora oggi, nel 2025, la tensione tra diritto di cronaca e diritto al giusto processo resta irrisolta.
📌 Conclusione personale
La presunzione di innocenza non è un privilegio maschile — è una garanzia universale. Abolirla per “credere alle donne” senza verifica significa mettere in pericolo tutti, uomini e donne. Il sistema attuale può fallire, ma sostituirlo con una giustizia emotiva e punitiva non è progresso — è persecuzione.
Come scriveva Philip Roth:
“Mi preoccupa la natura del tribunale chiamato a giudicare queste accuse. Mi preoccupa perché non sembra esserci affatto un tribunale.”