L'evoluzione del linguaggio e la proposta della BMA
Il linguaggio è in continua evoluzione e le modifiche ai termini comunemente utilizzati spesso derivano da esigenze di inclusività. Un esempio recente riguarda la British Medical Association (BMA), che ha raccomandato l'uso di "persone incinta" invece di "madre in attesa" o "donna incinta", per evitare di offendere le persone transgender che si trovano in questa situazione.
La decisione ha suscitato numerosi dibattiti, perché interviene su un aspetto biologico evidente: solo le donne possono partorire. Ma la BMA sostiene che il linguaggio medico dovrebbe essere più inclusivo e adattarsi ai cambiamenti sociali, evitando di rinforzare stereotipi di genere.
Perché "donna incinta" è considerato problematico?
La motivazione alla base di questa proposta è legata alle persone transgender. In particolare, un individuo nato biologicamente donna potrebbe aver iniziato una transizione verso il sesso maschile e, pur interrompendo temporaneamente il processo, portare avanti una gravidanza. In questo contesto, definirlo "madre" o "donna incinta" potrebbe non riflettere correttamente la sua identità di genere.
La BMA afferma che il linguaggio deve adattarsi per evitare discriminazioni, evidenziando che: "L'ineguaglianza di genere è riflessa in idee tradizionali riguardo ai ruoli di donne e uomini. Sebbene siano cambiate nel tempo, le supposizioni e gli stereotipi che sostengono queste idee sono spesso ben radicate."
Secondo questa prospettiva, il fatto che solo le donne biologiche possano partorire sarebbe un costrutto sociale, piuttosto che un dato biologico innegabile. Questa affermazione solleva interrogativi: il fatto che solo le donne possano biologicamente partorire è davvero solo un costrutto sociale o una realtà biologica innegabile?
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Inclusività vs realtà biologica: dove tracciare il confine?
Una delle questioni più dibattute riguarda l’equilibrio tra inclusività e riconoscimento della realtà biologica. Se una minoranza ristretta di persone non si identifica nel linguaggio comune, è necessario ridefinire interamente il vocabolario? Qual è il limite tra la sensibilità individuale e la chiarezza comunicativa?
Molti sostengono che sia più logico adattare il linguaggio caso per caso, evitando di stravolgere termini ben consolidati. In altre parole, sarebbe corretto rispettare l'identità di una persona transgender senza eliminare completamente termini come "donna incinta" dall'uso comune.
Un doppio standard nel linguaggio neutro?
Un altro aspetto interessante è il paragone con le regole linguistiche in contesti misti. Alcuni movimenti femministi criticano il fatto che in un gruppo misto, se c'è anche un solo uomo, il termine neutro utilizzato sia spesso quello maschile. A creare disagio è, sempre secondo quei movimenti, la "cancellazione" del femminile, della donna. Tuttavia, quando si tratta di persone transgender, l'approccio sembra ribaltarsi: per includere una minoranza, tutte le donne vengono nascoste dalla modifica del linguaggio, e non sembrano lamentarsene affatto. Come nel caso in esame.
Questa apparente incongruenza solleva interrogativi sulla coerenza nell’applicazione dell’inclusività, e su quali categorie debbano realmente essere considerate nella definizione del linguaggio neutro.
Conclusione: inclusività o censura del linguaggio?
La necessità di rispetto nel linguaggio è fondamentale, ma ciò non deve tradursi nella cancellazione di termini chiari e biologicamente corretti. L’obiettivo dovrebbe essere trovare un punto di equilibrio tra sensibilità individuale e precisione linguistica, evitando forzature e mantenendo la possibilità di esprimersi chiaramente.
Se una persona transgender preferisce un termine diverso, è corretto rispettare la sua scelta nel suo personale caso, ma ridefinire interamente il linguaggio per tutti potrebbe risultare eccessivo e controproducente.