L’esproprio dei contadini bianchi e il crollo dell’agricoltura nazionale
Lo Zimbabwe è uno di quei Paesi che sembrano non smettere mai di sorprendere — spesso in modo negativo. Dopo l’esperienza disastrosa della iperinflazione dello Zimbabwe (tra le peggiori della storia economica recente), il governo guidato da Robert Mugabe ha intrapreso un’altra scelta discutibile: la confisca delle terre agricole dei bianchi. Un processo iniziato a fine anni Novanta e culminato nel 2014 con un discorso del presidente Mugabe in cui dichiarava: “I contadini bianchi devono andarsene. Questa è la nostra terra.”
Questa cosiddetta riforma agraria razziale ha causato l’espulsione forzata di migliaia di agricoltori esperti, accusati di rappresentare un’eredità coloniale da estirpare. Tuttavia, il risultato è stato un drastico crollo della produttività agricola, infrastrutture irrimediabilmente danneggiate e un intero comparto economico portato al collasso.
Dal trionfalismo all’ammissione di fallimento: il ritorno dei “coloni”
Solo un anno dopo, nel 2015, la narrazione cambia completamente. Il governo, sotto la pressione della crisi economica e agricola, dichiara di voler riaccogliere i contadini bianchi in Zimbabwe, garantendo loro la possibilità di tornare a coltivare e promuovendo accordi per proteggere le proprietà agricole.
Il ministro delle Terre annunciava, quasi incredulo: “Stiamo raccogliendo i nomi dei contadini bianchi che vogliono restare. Vogliamo garantire la sicurezza delle proprietà per consentire una pianificazione agricola efficace.” In altre parole, dopo anni passati a demonizzarli, lo Zimbabwe aveva capito — tardi — quanto la competenza agricola fosse insostituibile.
Crisi umanitaria e gestione inadeguata delle risorse
Nel 2016, il colpo di grazia. Una siccità devastante mette ulteriormente in ginocchio la già fragile economia. Il governo lancia un appello disperato: servono 1,5 miliardi di dollari di aiuti per evitare la carestia. Ma la crisi non era solo colpa del clima: gran parte dei campi erano gestiti da persone inesperte, sistemi di irrigazione abbandonati, infrastrutture agricole lasciate a marcire. La carenza di manodopera qualificata e il clientelismo nella redistribuzione delle terre hanno trasformato lo Zimbabwe in un caso da manuale di come la politica razziale mal gestita possa innescare una crisi alimentare.
Conclusione: un disastro agricolo evitabile
La lezione dello Zimbabwe è chiara: l’agricoltura non si improvvisa. Espropriare terre sulla base del colore della pelle e consegnarle a chi non ha esperienza o risorse ha distrutto uno dei settori più produttivi del Paese. La riforma agraria dello Zimbabwe è diventata l’esempio perfetto di come il razzismo, anche se "invertito", sia sempre un pericoloso boomerang.
Fonti e approfondimenti: