Giovani italiani all’estero e la frase di Poletti: tra polemica e realtà sull’emigrazione

Stavolta a destare scalpore è stata una frase di Poletti, personaggio di cui non so praticamente niente, riguardo i giovani che emigrano dall'Italia e vanno all'estero. Una polemica infinita, tanto che mi tocca difendere questo personaggio che non conosco, almeno parzialmente:

“Conosco gente che è bene non avere tra i piedi”: la frase che ha scatenato il dibattito

Nel dicembre 2016, una dichiarazione dell’allora ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha sollevato un’ondata di polemiche. Commentando i dati sulla fuga dei giovani italiani all’estero, Poletti affermò: “Conosco gente che è bene sia andata via, questo Paese non soffrirà a non averli tra i piedi. I rimasti non sono tutti dei pistola”.

Una frase che, estrapolata dal contesto, ha generato indignazione sui social e nei media, tanto da coinvolgere anche la sfera privata del ministro. Ma cosa voleva davvero dire Poletti? E soprattutto: aveva torto?


Giuliano Poletti sui giovani emigrati

Fuga dei cervelli o emigrazione generalizzata?

Negli ultimi anni, il fenomeno della emigrazione giovanile dall’Italia è stato spesso raccontato come una perdita di “cervelli”, ovvero di talenti e competenze che il Paese non è stato in grado di trattenere. Tuttavia, come ha sottolineato Poletti (con toni discutibili), non tutti coloro che lasciano l’Italia sono necessariamente eccellenze. Esistono anche casi di emigrazione senza competenze, di giovani che partono senza conoscere la lingua del Paese ospitante, finendo per svolgere lavori precari e sottopagati.

Allo stesso modo, non è corretto affermare che chi resta in Italia sia automaticamente “un fallito”. La retorica della fuga dei cervelli rischia di semplificare un fenomeno complesso, che include motivazioni economiche, culturali e personali.


Il contesto: Job’s Act e precarietà lavorativa

Le dichiarazioni di Poletti arrivavano in un momento delicato, in cui il governo difendeva il Job’s Act e altre riforme del lavoro. Riforme che, secondo molti, hanno aumentato la precarietà giovanile in Italia e ridotto le tutele per i lavoratori. In questo contesto, le parole del ministro sono sembrate a molti un tentativo di sminuire le ragioni dell’emigrazione, attribuendole a una presunta inadeguatezza dei giovani stessi.

Se l’intento era quello di difendere le politiche occupazionali, l’effetto è stato l’opposto: la frase è stata percepita come un insulto a chi, spesso per necessità, ha scelto di cercare opportunità all’estero.

Emigrazione giovanile: tra frustrazione e mancanza di prospettive

L’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto tasso di disoccupazione giovanile e con una crescente mobilità in uscita di laureati. Molti giovani emigrano non per ambizione, ma per sfuggire a un mercato del lavoro stagnante, stipendi bassi e scarse prospettive di crescita. In questo senso, anche chi non è un “genio” ha il diritto di cercare altrove una vita dignitosa.

Ridurre il fenomeno a una questione di “merito” o “inutilità” rischia di oscurare le vere cause strutturali che spingono migliaia di ragazzi a lasciare il Paese ogni anno.

Conclusione: tra provocazione e verità scomode

La frase di Poletti è stata sicuramente infelice, ma ha toccato un nervo scoperto: non tutta l’emigrazione è sinonimo di eccellenza, e non tutti i giovani che restano sono “pistola”. Tuttavia, usare questa osservazione per minimizzare il problema della fuga dei giovani dall’Italia è pericoloso e miope. Il vero nodo resta la necessità di creare un sistema che offra opportunità reali, valorizzi le competenze e non costringa i giovani a scegliere tra emigrazione o precarietà.


Repubblica