Disparità di genere nella scuola italiana: analisi dei dati e delle contraddizioni

Durante una manifestazione promossa dal movimento Non Una di Meno, è stato esposto un cartellone che ha suscitato ampio dibattito sui social. Il messaggio, accolto con entusiasmo da alcune attiviste, intendeva dimostrare l’esistenza di una discriminazione sistemica contro le donne nel mondo scolastico e accademico. Ma i dati riportati, se analizzati con attenzione, raccontano una realtà più complessa.

I numeri della scuola: una presenza femminile dominante

Il cartellone mostrava le seguenti percentuali di insegnanti donne:

  • Scuola dell’infanzia: 100%

  • Scuola primaria: 95%

  • Scuola secondaria di I grado: 85%

  • Scuola secondaria di II grado: 59%

  • Rettori universitari: 5 donne su 78

Il messaggio conclusivo era chiaro: “Più salgono prestigio e guadagno, più è evidente l’assenza delle donne.”

Tuttavia, questa lettura ignora un dato fondamentale: la stragrande maggioranza del personale docente in Italia è composta da donne. Secondo i dati del MIUR, oltre l’80% degli insegnanti italiani è di sesso femminile. In particolare, nella scuola dell’infanzia e primaria, la presenza maschile è quasi nulla. Eppure, questa evidente asimmetria non viene mai denunciata come discriminazione nei confronti degli uomini.


Non una di meno insegnanti donne

Il paradosso del prestigio: pochi ruoli apicali, ma stipendi al vertice

È vero che tra i rettori universitari le donne sono una minoranza. Ma è altrettanto vero che la rettrice con lo stipendio più alto in Italia è una donna: Silvana Ablondi, secondo un’inchiesta de Il Fatto Quotidiano, percepisce oltre 187.000 euro lordi all’anno. Questo dimostra che, pur essendo numericamente inferiori, le donne possono raggiungere posizioni di vertice e retribuzioni elevate.

Inoltre, i rettori vengono eletti dai collegi dei docenti, composti in larga parte da donne. Se la rappresentanza femminile ai vertici è bassa, non si può attribuire la responsabilità a un generico “patriarcato”, ma piuttosto a dinamiche accademiche complesse, spesso legate a logiche di potere consolidate e non necessariamente di genere.

Chi sono i “baroni” dell’università italiana?

Nel contesto accademico italiano, i baroni sono spesso professori ordinari che, nel tempo, hanno accumulato potere decisionale su:

  • Concorsi e assunzioni: possono influenzare la selezione di ricercatori, assegnisti e docenti, spesso favorendo candidati “fedeli” o interni al proprio gruppo.

  • Distribuzione delle risorse: decidono su fondi di ricerca, incarichi didattici e accesso a progetti.

  • Carriere accademiche: controllano l’accesso a dottorati, abilitazioni e promozioni, creando un sistema di cooptazione.

Questo sistema è stato definito da alcuni studiosi come una forma di feudalesimo accademico, dove il merito può essere subordinato all’appartenenza a un “clan” o a logiche di scambio di favori.

Le criticità del sistema baronale

  1. Mancanza di meritocrazia In molti casi, i concorsi pubblici sono stati oggetto di inchieste per favoritismi e irregolarità. Secondo un’indagine della Procura di Catania, ad esempio, sarebbero stati truccati 27 concorsi per professori e ricercatori, coinvolgendo decine di atenei italiani.

  2. Ostacoli alla mobilità accademica I candidati esterni spesso non hanno possibilità reali di vincere un concorso se non sono “graditi” al dipartimento. Questo limita la circolazione delle competenze e penalizza i profili più innovativi.

  3. Effetti sulla rappresentanza di genere Anche la scarsa presenza femminile ai vertici può essere legata a queste dinamiche: se i meccanismi di selezione sono chiusi e autoreferenziali, è più difficile per chi è fuori dai circuiti consolidati — spesso donne o giovani — accedere a ruoli apicali.

Il rischio della lettura ideologica

Ridurre la questione della rappresentanza femminile a una semplice opposizione tra uomini privilegiati e donne discriminate rischia di semplificare e distorcere il dibattito. In molti settori pubblici, come l’istruzione, le donne non solo sono maggioranza, ma spesso godono di maggiore stabilità lavorativa e accesso alle graduatorie.

Il problema non è la presenza femminile, ma l’uso strumentale dei dati per sostenere tesi ideologiche. Se si vuole davvero parlare di parità, è necessario analizzare i numeri con onestà intellettuale, riconoscendo sia i progressi compiuti sia le criticità ancora presenti.

Conclusione

La parità di genere è un obiettivo condivisibile, ma va perseguita con rigore, evitando letture parziali o ideologiche. I dati sulla scuola italiana mostrano una forte presenza femminile, che non può essere ignorata quando si parla di discriminazione. Solo un’analisi equilibrata può contribuire a un dibattito costruttivo e rispettoso.

Il fatto Quotidiano: stipendi dei rettori

Link a abbatto i muri che ha ripreso la polemica

Linkiesta: la vergogna dei baroni universitari

Ultimo aggiornamento: Giugno 2025