L’aborto selettivo basato sul sesso del nascituro è una pratica discriminatoria che mina i diritti fondamentali delle donne. In Europa, dove la legge dovrebbe garantire uguaglianza e protezione, emergono casi in cui la giustizia sembra chiudere un occhio, soprattutto quando le pressioni familiari e culturali si intrecciano con contesti migratori. È un fenomeno che solleva interrogativi etici e giuridici urgenti.
Ad esempio nel Regno Unito una donna di origini asiatiche ha denunciato le pressioni subite dalla sua famiglia per interrompere la gravidanza della sua bambina, di fatto obbligandola e comprimendo i suoi diritti fondamentali. La motivazione accampata dalla famiglia in ospedale era che avevando già una figlia femmina non potevano affrontare i costi legati alla dote.
Nonostante la denuncia della donna, che ha dovuto insistere perché fosse depositata, il Crown Prosecution Service (CPS) ha archiviato il caso, definendolo una questione privata. Questo episodio, insieme ad altri simili, evidenzia una tendenza preoccupante: la riluttanza delle istituzioni ad agire per timore di essere accusate di razzismo o intolleranza culturale.

Il rischio del relativismo culturale
Difendere la diversità culturale non significa giustificare pratiche che violano i diritti umani. L’aborto selettivo in Europa, così come i matrimoni forzati, sono espressioni di una misoginia sistemica che non può essere tollerata in nome del multiculturalismo. La legge deve essere applicata in modo equo, senza eccezioni basate sull’origine etnica o religiosa.
Il silenzio di parte dell’attivismo femminista su questi temi è altrettanto allarmante. Per paura di essere accusati di islamofobia o razzismo, si evita di denunciare pratiche che opprimono le donne. Ma la vera giustizia per le donne migranti passa anche dalla capacità di riconoscere e contrastare le violenze che avvengono all’interno delle loro comunità.
Aborto selettivo in Europa: una pratica ancora tollerata?
Nonostante l’aborto selettivo sia formalmente vietato in quasi tutti i Paesi europei, la sua applicazione concreta resta ambigua. In molti Stati membri, la legge consente l’interruzione volontaria di gravidanza entro le 12 settimane, ma non sempre vengono effettuati controlli rigorosi sulle motivazioni che spingono alla richiesta. Questo lascia spazio a possibili abusi, soprattutto in contesti familiari dove la pressione culturale o patriarcale può influenzare la decisione della donna.
Non esistono ancora meccanismi europei armonizzati per prevenire l’aborto selettivo
Né linee guida comuni per monitorare i casi sospetti. La Commissione Europea ha ricevuto oltre un milione di firme con l’iniziativa “My Voice, My Choice”, che chiede l’adozione di una normativa unificata sull’accesso all’aborto, ma al momento non ha ancora presentato una proposta legislativa concreta.
In sintesi:
L’aborto selettivo è formalmente vietato, ma di fatto può ancora verificarsi in alcuni contesti familiari e culturali.
Le autorità giudiziarie spesso non perseguono i casi, per mancanza di prove o timori legati al multiculturalismo.
Non esiste una normativa europea specifica per contrastare l’aborto selettivo, né un sistema di monitoraggio efficace.
Le iniziative politiche in corso si concentrano sull’accesso all’aborto in generale, senza affrontare direttamente la selezione di genere.
Conclusione: una legge davvero uguale per tutti
L’Europa ha il dovere di garantire che i diritti riproduttivi femminili siano rispettati ovunque, senza ambiguità. L’aborto selettivo non è una questione privata, ma un problema pubblico che richiede risposte istituzionali chiare. La giustizia per le donne non può essere sacrificata sull’altare del politicamente corretto.