L’ipocrisia dei sedicenti antirazzisti: quando la sinistra perde la bussola

No, questo non è un articolo per difendere Donald Trump — le sue idee discutibili non mancano. Ma è doveroso puntare il dito contro l’ipocrisia di certa sinistra radicale, che ha saturato il dibattito pubblico con una retorica moralista... a cui nemmeno lei crede davvero.

Dopo l’elezione di Trump, i paladini del “progresso” hanno passato mesi a gridare contro sessismo, razzismo e violenza. Poi, ironia della sorte, sono stati proprio loro a scendere in piazza con slogan razzisti, atti vandalici e insulti sessisti, rivolti a chi non la pensava come loro.

Proteste “pacifiche” o sfogo d’odio?

Negli Stati Uniti, centinaia di manifestanti — in gran parte studenti universitari e attivisti liberal — hanno invaso le strade per protestare contro l’esito elettorale. Le chiamano “proteste pacifiche”, ma in molti casi si sono trasformate in vandalismo, roghi di bandiere e cori d’odio.

Il bersaglio? Trump, certo. Ma anche e soprattutto i “bianchi” in quanto tali. Una forma di razzismo che, se invertita, verrebbe giustamente condannata. Ma in questo caso, è stata giustificata come “reazione legittima”.

Antirazzisti che in realtà sono razzisti

Quando l’antirazzismo diventa razzismo

Alcuni esempi parlano da soli. La youtuber Laci Green, in un tweet poi rimosso, scriveva: > “Fanculo America bianca. Fanculo a voi razzisti, misogini pezzi di m***a.”

Oppure Jack Moore, sceneggiatore e attivista: > “No, sul serio, fanculo ai bianchi.”

Frasi che, se pronunciate contro qualsiasi altra etnia, avrebbero scatenato un putiferio mediatico. Ma in questo caso, sono passate quasi inosservate, o peggio: giustificate


Tweet poi rimosso

Il paradosso della sinistra identitaria

Chi accusa gli altri di razzismo e sessismo non può poi usare gli stessi strumenti per colpire chi dissente. È un cortocircuito logico e morale. Eppure, nel clima polarizzato di oggi, sembra che tutto sia concesso... purché venga dalla “parte giusta”.

Il risultato? Un dibattito pubblico sempre più tossico, dove l’indignazione selettiva ha sostituito il confronto, e dove chi osa criticare viene etichettato come “fascista” o “reazionario”.


Jack Moore sceneggiatore

Serve coerenza, non slogan

Essere contro il razzismo significa esserlo sempre, non solo quando conviene. E chi si proclama “antirazzista” dovrebbe iniziare col guardarsi allo specchio. Perché l’odio non cambia colore a seconda di chi lo pronuncia.

Nove anni dopo: il fuoco (ideologico) non si è spento

A quasi un decennio di distanza da quelle proteste post-elettorali del 2016, gli stessi toni, le stesse etichette e gli stessi eccessi sono ancora lì. Anzi: si sono amplificati, con un vocabolario più sofisticato e una polarizzazione ancora più profonda.

Nel 2025, con Donald Trump tornato alla presidenza, le piazze si sono riempite di nuovo, ma stavolta in versione 2.0: slogan nuovi, rancori vecchi. Il movimento Hands Off ha mobilitato più di mille città americane, mentre la parata militare per il 250º anniversario dell’esercito ha acceso la miccia di una contro-parata chiamata No Kings Day, che da sola ha superato i 1.900 eventi.

Il claim? “No Thrones. No Crowns. No Kings.” — ma il tono era lo stesso del 2016: se non la pensi come noi, sei il nemico.

Doppio standard in alta definizione

E mentre si marciava per “l’inclusività” e “contro la violenza”, in alcune città scoppiavano scontri reali: lacrimogeni, arresti, violenze. In California, l’invio della Guardia Nazionale e dei Marines ha generato scene da distopia — droni militari, taxi incendiati e sindaci che parlavano di “guerra civile a bassa intensità”.

Nel frattempo, chi osava criticare l’ipocrisia di certe derive veniva zittito con le stesse accuse di sempre: fascista, reazionario, ignorante. Come se il tempo si fosse fermato al 2016, ma con filtri grafici nuovi e una CGI più credibile (purché non sia dei film Marvel).

Il paradosso si è fatto sistema

E così, l’ipocrisia di ieri è diventata normalità oggi. L’indignazione non si è trasformata in proposta, ma in teatro ideologico. Dove l’etichetta conta più dell’argomento, e la violenza è “giustificata” se proviene dalla parte “buona”.

In fondo, gli stessi meccanismi che avevo raccontato a caldo nel 2016 sono ancora gli stessi — solo più lucidi, più organizzati, più algoritmici. Ma sempre incoerenti.


Ultimo aggiornamento: Giugno 2025