L’ipocrisia dei contrari a Trump che promuovono la secessione
Dopo l’elezione di Donald Trump, molti dei suoi oppositori — compresi noti volti della Silicon Valley — hanno reagito con toni drammatici. Chi lo ha votato è stato subito tacciato di razzismo, sessismo, e simpatia per il Medioevo. Chi lo ha sostenuto, come Nigel Farage, anche in vista delle sue idee sulla Brexit, è deriso e descritto come “troglodita”.
Finché... ecco che gli stessi accusatori iniziano a proporre la Calexit. Cioè: se vinci tu, io me ne vado. Il tutto condito da conferenze, hashtag e petizioni. E ironicamente: non era Trump quello che voleva “dividere il Paese”?
Calexit: un movimento nato piccolo, ma cresciuto di pancia
All’inizio, il movimento Calexit era quasi folkloristico. Un gruppo di indipendentisti che sbandieravano i numeri della California come sesta potenza economica mondiale. Ma dopo il terremoto elettorale, quella che sembrava una boutade si è gonfiata di like, retweet e firme.
D’improvviso, l’idea di andarsene dagli USA è diventata “cool”. Al punto che alcuni entusiasti hanno perfino paragonato l’esito delle elezioni a una nuova ascesa di Hitler. Ti sembra esagerato? Lo è. Eppure è accaduto.
Nationalismi selettivi: isolazionismo, ma solo se è il loro
Il paradosso è evidente: viene criticato chi propone chiusura e separatismo, ma poi si giustifica lo stesso atteggiamento se arriva “dalla parte giusta”. Lo stesso isolazionismo viene rivendicato come gesto di coraggio… ma solo se lo fanno loro.
“Non votate Trump perché promuove il nazionalismo!” — dicono. Poi: “Vogliamo separarci dagli USA!” — ma questa sarebbe una forma “etica” di campanilismo?
Quando il vittimismo diventa strumento di dominio
Il punto non è Calexit. Il punto è che il dibattito pubblico è sempre più ostaggio dell’incoerenza. Se uno difende le sue idee viene bollato come pericoloso; se un altro propone la stessa cosa, è “visionario”.
E spesso, il razzismo peggiore è proprio quello di chi nega di esserlo con tutte le forze, ma nel frattempo giudica chi la pensa diversamente da una torre d’avorio.
Aggiornamento 2025: Calexit torna a far parlare di sé
Sembrava una provocazione figlia dell’isteria post-elettorale del 2016, e invece... il Calexit è ricomparso sulla scena politica californiana. A gennaio 2025 è stato avviato ufficialmente un processo per raccogliere le firme necessarie a proporre un referendum consultivo sull’indipendenza dello Stato dalla federazione USA.
Il promotore? Sempre lui: Marcus Evans, già attivo nelle iniziative passate, tornato alla carica dopo la rielezione di Donald Trump. L’obiettivo è chiaro: raccogliere almeno 546.651 firme valide entro luglio 2025, così da inserire la proposta nel voto del 2028.
Cosa succede se passa?
Anche in caso di successo, il referendum non porterà a una secessione automatica. Servirebbe un consenso federale, o peggio — una rivoluzione. Già nel 1869 la Corte Suprema ha sancito che uno Stato non può uscire dall’Unione di propria iniziativa. Quindi al massimo si aprirebbe una commissione statale per valutare la questione.
Tradotto: molto rumore, probabile nulla. Ma intanto la California torna a farsi sentire — e a dividersi.
Movimenti simbolici o vento nuovo?
Secondo i sondaggi interni ai promotori, oltre il 60% dei cittadini californiani vorrebbe più autonomia nella gestione delle risorse, anche senza arrivare alla secessione. Il Calexit quindi torna a essere, più che un progetto concreto, un termometro del malcontento verso il governo centrale.
In mezzo a un panorama polarizzato come quello americano, certi discorsi — per assurdi che sembrino — ritrovano terreno fertile, soprattutto quando a presiederli c’è una narrativa di “noi contro loro” che fa comodo a molti.
Huffington Post