Polarizzazione, odio e dialogo negato: la deriva delle discussioni pubbliche

orse ne avevo già parlato altrove, in Perché Trump ha vinto o Il debunking è inutile?. Ricordo bene che quest'ultimo, per aver criticato l’inefficacia di un certo approccio “antibufala”, mi è costato l’amicizia di alcune persone, anche piuttosto conosciute. Ma oggi, anni dopo, pare che le cose siano andate esattamente nella direzione che temevo. E no, non lo dico per rivendicazione personale, ma per constatazione oggettiva.

In un’epoca in cui tutto si riduce a bandiere, slogan e identità contrapposte, etichettare è diventato il modo preferito per zittire. Dai del “fascista”, “sessista”, “omofobo” a qualcuno, e il confronto è chiuso. Non serve più pensare, ascoltare, articolare un’idea. Eppure l’etichettamento ideologico non solo non aiuta il dialogo: lo avvelena e lo estremizza.

Non ho mai avuto la pretesa di essere un modello di moderazione. Anch’io ho ceduto, in passato, a reazioni impulsive. Ma proprio da quegli errori ho iniziato a capire il danno enorme che certi comportamenti causano alla convivenza civile. E ho cercato, con fatica, di cambiare passo.

Il problema dell’estremismo a sinistra e il rifiuto del confronto

Molti — in particolare nel fronte dell’estremismo progressista — non vogliono sentire ragioni. Hanno già deciso quali opinioni sono accettabili e quali no. Ogni idea divergente viene considerata “violenta”, “tossica” o “odiosa”. E quando qualcuno prova a parlare, parte l’attacco di gruppo: etichette, insulti, denigrazione pubblica.

Prendiamo un esempio concreto. Un mio conoscente è contrario all’estensione del termine “matrimonio” alle unioni omosessuali, ma è favorevole alle unioni civili con eguali diritti. Una posizione che si può condividere o no, ma che non nega alcun diritto sostanziale a nessuno. Tuttavia, basta che esprima la sua idea per venir sommerso da accuse di omofobia, intolleranza e bigottismo. Il tutto con un contorno di abbondanti e coloriti insulti.

Ora, quale beneficio porta questo tipo di reazione? Nessuno. Non favorisce la causa LGBTQ+, non educa l’interlocutore, non promuove il rispetto. Serve solo a dividere, umiliare, creare nemici. E questo è l’aspetto più tossico della polarizzazione: la demonizzazione del dissenso.

Ignoranza e radicalizzazione: il cortocircuito emotivo

Facciamo un altro esempio: una persona che, per ignoranza (non per odio), teme i gay o le unioni omosessuali. Magari non ne ha mai conosciuti davvero. Ha in testa stereotipi ridicoli, tipo che si comportino in modo sconsiderato o sconcio. In un contesto di dialogo aperto e civile, questa persona potrebbe cambiare. Ma se il suo primo dubbio viene accolto da insulti e accuse di omofobia, cosa succede? Si chiude, si indurisce. E si polarizza.

Lo stesso meccanismo si è osservato con gli elettori di Donald Trump. Sono stati trattati in blocco come razzisti e sessisti. Il risultato? Oggi molti di loro rifiutano il confronto e si radicalizzano ulteriormente, alimentati dalla frustrazione di non essere ascoltati, ma solo giudicati. Quando le persone vengono bollate invece che comprese, si ottiene l’effetto opposto: odio che genera altro odio.


La polarizzazione

Etichettamento politico tossico e disintegrazione del dialogo pubblico

L’uso sistematico di etichette moralizzanti sta frantumando ogni possibilità di convivenza civile. Si attacca la persona, non le idee. E se l’interlocutore è “bianco”, “maschio”, “etero”, allora diventa automaticamente un nemico da zittire. Si è passati dalla difesa dei diritti alla caccia alle streghe culturale.

La retorica di certi attivisti sembra ricalcare meccanismi della propaganda totalitaria novecentesca. Cambia il bersaglio — ora il “colpevole” è il maschio bianco occidentale — ma resta intatta la logica: semplificare, incolpare, demonizzare. E guai a mettere in discussione questo approccio: vieni subito additato come complice dell'oppressore.

Dialogo costruttivo in politica: è ancora possibile?

Davvero vogliamo costruire una società in cui si può parlare solo se si è perfettamente allineati a uno schema ideologico? Dove basta una parola mal calibrata per essere radiati dal dibattito pubblico? Il dialogo costruttivo in politica esiste solo se si dà spazio all’imperfezione, al dubbio, alla domanda scomoda. Ma oggi, il dubbio è considerato sospetto.

Io stesso, nel tempo, ho imparato a spiegare meglio le cose. A non etichettare. A non dire: “Hai torto perché la pensi diversamente”. E quando qualcuno ascolta, si può costruire qualcosa. Se non ascolta, pazienza. Ma insultare e zittire è il modo migliore per distruggere ogni ponte.

Conclusione: la polarizzazione non si combatte con l’arroganza

Scrivevo queste cose nel 2016. Ora siamo nel 2025, e la polarizzazione ideologica online è esplosa. Chi prima zittiva con arroganza è diventato sempre più isolato, sempre più acido, fino a sembrare l’ombra caricaturale di sé stesso. Mentre il tessuto sociale si lacera, la colpa viene attribuita agli “altri”. Ma forse il primo passo è guardarci allo specchio.

Pensateci: etichettare non è dibattere. Umiliare non è educare. Demonizzare non è giustizia. È solo altro estremismo.


Ultimo aggiornamento: Giugno 2025