Pokémon Go e giornalismo d’opinione: quando la critica diventa disprezzo

Nel 2016, nel pieno del fenomeno globale Pokémon Go, una testata nazionale pubblicò un articolo d’opinione che definiva i giocatori “pirla” e descriveva il gioco come una “trovata infantile e inquietante”. L’articolo, firmato da Fabrizio Biasin e pubblicato su Libero Quotidiano, è oggi scomparso dal web. Ma ne restano le tracce che ho salvato all'epoca — e vale la pena rileggerle, perché rappresentano un caso emblematico di come la satira giornalistica possa trasformarsi in disprezzo verso i lettori.

In questo articolo analizziamo i passaggi più significativi del pezzo originale, alternandoli a una riflessione sul linguaggio usato, sul ruolo del giornalismo e sul rapporto tra cultura pop e critica mediatica.

Il tono dell’articolo: tra sarcasmo e invettiva

Il titolo originale era già una dichiarazione d’intenti: “I Pokémon non esistono, i pirla sì”

Scriveva l’autore:

“Per piacere, fidatevi di noi: i Pokemon non esistono. Non e-si-sto-no. Uscite dal tunnel prima che sia troppo tardi, smettetela di fare i min****ni, chini sul vostro cellulare per catturare pupazzetti con facce da culo, in giro per l’universo mondo. Voi che ignorate la faccenda, invece, sappiate che presto verrete coinvolti vostro malgrado in questa bislacca nuova moda. Leggete, fatevi un’idea, e prendete una decisione.”

Il tono è volutamente provocatorio, ma ciò che colpisce è l’uso di un linguaggio che, più che ironico, appare sprezzante. Il bersaglio non è tanto il gioco in sé, quanto chi lo gioca — spesso giovani, appassionati, o semplicemente curiosi.


Screenshot dell'articolo di Libero "I Pokemon non sono reali ma i pirla che ci credono si" ormai cancellato

Satira o disprezzo? Il confine sottile

L’articolo prosegue con riferimenti alla “pillola rossa” e alla “pillola blu”, in un evidente richiamo a Matrix:

“Pillola rossa: anche voi entrate a far parte del club degli sciroccati. Pillola blu: provate a riportare amici e parenti sulla retta via.”

Un tono che rievoca la retorica dei “redpillati”, ma in chiave diversa da quella che siamo abituati a vedere online. Qui non si tratta di ideologia, ma di una presa di posizione netta contro un fenomeno culturale.

Il paradosso della critica digitale

Biasin scrive:

“E niente, dopo i successi americani e intergalattici, anche in Italia è arrivato il giochino cretino denominato Pokémon Go. Funziona così: scarichi l’applicazione al costo di un bel niente, regali un po’ di preziosi dati sensibili a lorsignori e, infine, entri nel mondo virtuale e assai infantile dei mostriciattoli colorati, piazzati qua e là in città dai loro stessi inventori.”

Il paradosso è evidente: l’autore critica il gioco per la raccolta dati, ma lo fa su una testata che ospita pubblicità nativa e tracciamento degli utenti. Una contraddizione che merita di essere sottolineata.

L’inquietudine come cifra retorica

Uno dei passaggi più surreali riguarda la descrizione dei Pokémon “guardoni”:

“Alcuni sono a due passi, te li trovi sulla tovaglia, sopra il frigorifero, appoggiati sulla teglia di melanzana alla parmigiana, nel lettone intenti a guardare tua moglie in mutande. Tu ridi, ma se ci pensi è inquietante perché nessuno ha invitato il Pikachu di turno a bivaccare nel tuo salotto, eppure è lì, con la sua faccia da bambacione.”

L’immagine è volutamente grottesca, ma il tono resta ambiguo: si ride o ci si indigna? L’articolo sembra oscillare tra satira e fastidio reale, senza mai chiarire la sua posizione.

Il bisogno di senso e la critica al “vuoto”

L’autore ironizza anche sul senso del gioco:

“Dice il lettore: ‘Sì ma poi? Qual è il godimento finale? Si guadagnano quattrini? I Pokémon te lo fanno arrizzà? Ti puliscono casa? No, niente. Servono solo a dire «ce l’ho», come accadeva ai tempi delle figurine, solo che questa trota ha effetti collaterali più significativi.’”

Qui la critica si sposta sul piano esistenziale: giocare per collezionare, per il gusto di farlo, viene ridicolizzato. Ma non è forse lo stesso principio che muove ogni forma di collezionismo, di hobby, di passione?

Gli “effetti collaterali” secondo l’articolo

L’articolo elenca quattro effetti collaterali del gioco. Eccone alcuni estratti:

“Effetto n° 1: è chiaramente tutto finto e innocuo, ma pensare che utilizzando il ‘filtro’ dello schermo tu possa vedere simil-scarrafoni piazzati sul comodino o per le strade, è un filo inquietante.”

“Effetto n° 2: tu, assatanato, ti ritrovi a vagare per la città. [...] Il tutto per entrare in possesso di Pokémon rarissimi. [...] perché in cima al tal albero si è piazzato il rarissimo Minchiemon (nome inventato).”

“Effetto n° 3: è tutto molto pericoloso. [...] Pensando si trattasse di ladri ha sparato, in realtà i due stavano tentando di catturare il rarissimo Testadicaiser (altro nome inventato).”

“Effetto n° 4: gli inventori del giochino stanno facendo montagne di soldi tra pubblicità, futuri sviluppi (film e merchandising), caivari. Loro sono i meno pia di tutti, è evidente.”

La critica si fa più ampia: si parla di sicurezza, di alienazione, di business. Ma il tono resta quello di un’invettiva più che di un’analisi.

Conclusione: chi è davvero il bersaglio?

Pokémon Go è stato un fenomeno globale che ha coinvolto milioni di persone, spesso in modo positivo: ha spinto a camminare, a socializzare, a esplorare. Criticarne gli eccessi è legittimo. Ma quando la critica si trasforma in scherno verso chi gioca, il rischio è quello di perdere di vista il bersaglio.

Il giornalismo può (e deve) essere ironico, ma dovrebbe anche saper distinguere tra satira e disprezzo. E quando una testata nazionale tratta i propri lettori come ingenui o ridicoli, forse è il giornalismo stesso a dover uscire dal tunnel.

Articolo originale ora eliminato, resta l'url come testimone, gli stralci che ho raccolto e lo screen del titolo